Giorgio Napolitano ormai non è più, ma la sua eredità (e questo è bene che i giovani e coloro che non hanno potuto conoscerlo appieno lo intendano per bene) non è quella che si legge negli affrettati necrologi d’obbligo, compilati per un’alta personalità dello Stato (Presidente emerito della Repubblica Italiana … il primo Presidente della storia italiana ad essere eletto per un secondo mandato … con un’attività parlamentare ininterrotta per 70 anni … da Presidente della Camera a Ministro dell’Interno …). No. La sua eredità non è questa, ma è costituita dai valori che ha rappresentato per la Storia e la Società italiane.
Sono valori che affondano le radici nella lotta antifascista e che hanno gettato le basi della nostra costituzione; sono i valori dell’impegno non per una Democrazia qualsiasi, ma per quella che sa trasformare la società e conseguire fondamentali conquiste sociali e civili. La sua scelta di campo per il Partito Comunista Italiano (anche qui non un Partito Comunista qualsiasi) non poteva avere basi più nitide. E’ lo stesso Napolitano a dirlo: “… vidi a Padova (dove si era rifugiato da Napoli durante la guerra, ndr) – anche grazie a qualche insegnante eterodosso e stimolante – come ci fossero vie che dall’impegno culturale, nutrito di senso della libertà e della responsabilità, conducevano all’impegno politico, antifascista e tendenzialmente comunista” (G. Napolitano “Dal PCI al Socialismo europeo. Un’autobiografia politica” – Laterza 2006).
Tutto questo non poteva non tradursi in un sincero riformismo, che ha continuato a sostenere pur tra le molte difficoltà interne di un PCI che si dibatteva tra la sua matrice rivoluzionaria e il permanere ancora del legame ideologico e politico con l’Unione Sovietica. Berlinguer era ancora di là da venire, ma Napolitano era già al centro del dibattito sul primo centro-sinistra, già al centro dell’aspro confronto del 1965-66 all’interno del gruppo dirigente del partito, al centro del dissenso con l’URSS per la repressione in Cecoslovacchia e al centro del successivo strappo con Mosca. Certo, all’interno rimaneva sottotraccia l’iniziale massimalismo, ma dietro le quinte del percorso politico del PCI (compromesso storico, politica di solidarietà democratica, questione morale, strappo da Mosca) non possiamo non notare la coloritura riformista di Napolitano.
Il mio primo, personale “contatto” con lui fu in un dibattito televisivo in cui era ospite insieme con Gianni Agnelli, all’epoca “deus ex machina” della FIAT. A ognuno dei due fu posta la stessa domanda: che tipo di società vi prefigurate o vorreste costruire. La risposta di Agnelli si concentrava sulla società del benessere, nel senso più largo del termine e riferito a tutti i ceti sociali; benessere più facilmente raggiungibile attraverso le libertà fondamentali dell’individuo e il buon governo su basi liberali. La risposta di Napolitano si concentrava sulla necessità di allargare il benessere includendo subito (e non aspettando) i ceti meno abbienti, sulla necessità di aprire i diritti civili all’inclusione di ogni uomo e donna in quanto tali e non in quanto raggiunti dal benessere, sulla necessità – in sostanza- di mettere al centro la persona e non la circostanza di esserlo. Ecco, questa è l’eredita di Napolitano. Il suo “cursus honorum” istituzionale è altra cosa.